Bella – 1656

Bella

I PARTE

Io sono due persone in una.
La prima si chiama Bella, ama la #musica ed è solare come il nome che mi sono inventata per sopravvivere.
La seconda si chiama Angela Esposito, è orfana e a 13 anni ha smesso di essere una bambina. Esattamente quando è stata stuprata da un uomo chiamato Antonio Cerrone.

Per quel delitto fu condannato al pagamento di sessanta ducati, il prezzo che si decise di dare alla mia dignità. Ricordo ancora, parola per parola, la trascrizione del versamento che fu fatto alla Santa Casa a cui venivano affidati gli orfani come me.
“Et per me li sedetti ducati sessanta li pagarete alli Signori Governatori della medesima nostra Santa Casa, per la transazione fatta da me con detta Santa Casa per lo stupro da me commesso in persona di Angela Esposito alias Bella, per la quale causa mi ritrovo carcerato. Che perciò per detta causa non possa in nessun futuro tempo esser molestato ne astretto a cosa nessuna”. Firmato: Antonio Cerrone.
Quella Angela Esposito, però, adesso non esiste più, fatemi parlare di Bella.
Appena nata fui affidata alla ruota degli esposti, il meccanismo dove venivano abbandonati i neonati non voluti. Esposito, il cognome che mi fu assegnato, deriva proprio da questo.
Da quel momento sono cresciuta in orfanotrofio, tra suore e madri superiori, che non è un ambiente degno di nota, ma mi ha permesso di frequentare il #conservatorio della Pietà dei Turchini.
Oggi siete voi a decidere se seguire o meno l’inclinazione per la musica, ai miei tempi invece si veniva messi lì per “conservarci”.
I conservatori sono nati per proteggere i bambini abbandonati. Non sempre funzionava, ma almeno si imparava un mestiere. Quello di #musicista, di accordatore o, se proprio non avevi orecchio, di ragazzo di bottega di #StrumentiMusicali.

Credo di avere imparato a suonare il #liuto prima ancora di iniziare a parlare correttamente. D’altra parte le lettere dell’alfabeto sono 21, mentre le note sono solo 7. Sono i modi in cui possono essere arrangiate ad essere infiniti. Dopo quello che mi è successo ho iniziato a usare la #musica per liberarmi. Più pizzicavo il mio liuto, più mi liberavo del nero che avevo dentro. E più riuscivo a liberarmene, più vedevo gli occhi delle persone che mi ascoltavano farsi lucidi. In quei momenti, dimenticavo tutto e mi sentivo felice.
Il mio sogno era quello di #suonare in una #orchestra, magari in un teatro davanti ad un pubblico vero, ma una persona del mio ceto, a maggior ragione se orfana, non avrebbe mai potuto avere quel privilegio. A meno di un miracolo.

Il mio venne con l’arrivo della peste a #Napoli, quando fui mandata a fare la vedetta sul Ponte della Maddalena, per controllare che nessuno entrasse o uscisse dalla città.
Ogni sera, mentre la malattia si portava via mezza città, io mi esercitavo col mio liuto.
Una notte arrivò sul ponte un medico messinese, disse che la musica lo aveva guidato fino a me. Da quel momento venne ogni sera per ascoltarmi suonare. Si chiamava #CarloMorexano e gli raccontai la speranza di esibirmi davanti a tutti. Promise di aiutarmi e mi diede un bigliettino di referenze che, quando quell’inferno fosse finito – se fosse finito, aggiunse – avrei dovuto presentare a un giovane #compositore che aveva salvato dalla peste. Anche se lui dubitava che la città sarebbe sopravvissuta a quel flagello, io ero sicura del contrario.
Perché se possono esistere diavoli capaci di stuprare una ragazzina di 13 anni, allora devono esistere anche angeli in grado di darle un motivo per continuare a vivere.

II PARTE

L’acqua, l’elemento che aveva portato la #peste a Napoli, fu lo stesso che all’improvviso, quando nessuno aveva ormai più speranze, la spazzò via. La malattia era arrivata via mare, portata dalle navi in arrivo dalla Sardegna, e se ne andò via pioggia un giorno di agosto, quando uno scroscio torrenziale lavò l’aria e le strade, spugnò le fondamenta di legno di alcuni palazzi del centro storico facendoli crollare e bonificò la città da un’epidemia che sembrava inarrestabile.

La gente cominciò a tornare nelle strade, i contagi iniziarono a diminuire e i matrimoni a essere celebrati di nuovo. Era l’anima della città che si svegliava dall’incubo e tornava ad avere voglia di festeggiare. Più che voglia era un bisogno, quello di esorcizzare la paura con l’unica arma che ci potevamo permettere: l’allegria. Anche i preti e i nobili cominciarono a farsi vedere di nuovo, dopo essersi spariti per mesi nei loro palazzi dorati

Finito il tempo dei miei #liveconcert sul ponte, ripresi il bigliettino che mi aveva lasciato #CarloMorexano per mettermi alla ricerca del compositore e guadagnarmi la #audizione che sognavo da sempre. Lessi per la prima volta il suo nome: Salvatore. Che altro nome poteva avere chi avrebbe cambiato la mia vita se non quello?

Mentre attorno a me la città si rimetteva lentamente in piedi, io cercavo il mio musicista bussando a qualsiasi uscio incontrassi. Chiese, banchi, teatri, cantieri, piazze, ville nobiliari, locande: battevo le nocche su ogni porta, chiedendo notizie di un giovane musicista di nome Salvatore. La voce si sparse velocemente e finalmente ottenni il suo indirizzo: era in Via Santa Maria di Costantinopoli, ospite di Tommaso Firrao, Principe di Sant’Agata.

Il giorno seguente presi il mio #liuto e mi presentai a Palazzo Firrao stringendo il mio biglietto tra le mani. Non avevo però fatto i conti col mio aspetto di orfana di strada con la veste rammendata, le scarpe consumate e l’astuccio logoro del mio strumento. La servitù che venne ad aprirmi mi chiuse la porta in faccia senza nemmeno farmi parlare. Ribussai forte sventolando il mio biglietto. Fui presa e buttata in strada come una mendicante. Il mio biglietto strappato sventolava nell’aria in mille pezzi.

Tutto quello in cui speravo per il mio riscatto era finito nella polvere ridotto a brandelli. Se non potevo contare sul mio aspetto per avere un’opportunità, adesso non avrei potuto avere nemmeno le mie referenze. Era tutto finito. Oppure no. Il mio sogno era troppo grande per stare in un pezzo di carta. E io avevo ancora il mio #talento.

Mi fermai al centro del cortile, impugnai il liuto e iniziai a suonare la mia vita. Nota dopo nota, corda dopo corda, raccontai attraverso la musica di Angela Esposito, di Bella, del conservatorio, dei 60 ducati e di quello che avrebbero dovuto risarcire.

Raccontai di Antonio Cerrone, del ribrezzo che avevo provato e dell’odio che ancora avevo nascosto dentro, liberandomene finalmente per sempre.

Non so quanto tempo suonai, ma quando aprii gli occhi successe qualcosa di straordinario. Tutte le finestre del palazzo erano aperte, affollate di persone che guardavano verso il basso. Erano tanti da non riuscire a contarli e tutti, uno dopo l’altro, iniziarono a battere le mani. Applaudivano me.

Dalla porta uscì un uomo che mi invitò a entrare. Si scusò per quell’accoglienza iniziale, mi domandò come mi chiamavo, dove avevo imparato a suonare così. Mi chiese se avessi potuto ripetere quell’esibizione con lui al #Teatro San Bartolomeo. Si chiamava Salvatore.

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