Teresa Battaglia – 1601

Teresa Battaglia

I PARTE

A volte l’amore toglie più di quello che dà. A me è successo così, e anche a tanti di voi, ci scommetterei tutti i miei averi. Tanto ormai non ho più nulla.
Prima non era così. Ero la ricca signora Battaglia, amata dal marito, conosciuta e stimata da tutti. La mattina scostavano le tende in camera mia e mi davano il buongiorno con la frase che preferivo. “Oggi cosa gradisce da mangiare, signora?”.
Adoravo il #buoncibo e, a differenza della maggior parte del popolo che pativa la fame, noi potevamo permettercene in quantità. Dopo aver scelto il #menu, mi facevo accompagnare al mercato del #BorgoMarinari e poi tornavo a osservare le mie cuoche preparare il #PiattoDelGiorno che avevo scelto. La brace sfrigolava, gli stufati gorgogliavano e vapori profumati salivano dai tegami. Tanto per un semplice uovo in camicia, quanto per un brasato al vino rosso, non riuscivo a stare lontana dai piaceri che mi dava la cucina.

A ora di pranzo mio marito rincasava dal porto, dove amministrava la nostra flotta di pescherecci, e con lui arrivava anche il #pescato di giornata ad arricchire la tavola. A volte, di tanto in tanto, si imbarcava anche lui per seguire di persona le partite di pesca più importanti. Stava via al massimo un paio di giorni, per poi tornare con carichi appetitosi. Io andavo ad aspettarlo sulla banchina, per abbracciarlo appena avesse rimesso piede sulla terraferma. Poi, a casa, con lui che ancora sapeva di sale, ci ubriacavamo di ostriche e buon #vino.
Quella maledetta volta, però, non tornò. Passai una settimana intera su quel molo, convinta di vederlo arrivare da un momento all’altro. Inutilmente.

Quando ormai tutti mi consigliavano di prepararmi al peggio, a Napoli attraccò una nave proveniente dall’Africa con una notizia devastante. La sua nave si era spinta troppo in là ed era stata assaltata dai corsari lungo le coste africane. I pirati barbareschi avevano saccheggiato il carico e sterminato l’equipaggio. Solo il membro più influente, mio marito, era stato risparmiato per essere preso come schiavo. Una sorte ancora peggiore che saperlo morto.

Senza lui a portare avanti la flotta, tutte le attività di famiglia iniziarono, una dopo l’altra, a crollare. In pochissimi mesi ero sul lastrico. Niente più entrate, niente più domestiche, niente più tavole imbandite. L’unica cosa che mi era rimasta era il pensiero costante di tirarlo in qualche modo fuori da quell’inferno e nemmeno un soldo per riuscirci.
Avevo due strade davanti a me: lasciarmi morire di dolore, o rimboccarmi le maniche con l’unica cosa che avevo imparato. Scelsi la seconda possibilità: avrei usato il cibo per alimentare la mia speranza di rivederlo. Ogni giorno attraversavo Largo di Palazzo, quella che oggi è #PiazzadelPlebiscito, accendevo un piccolo fuoco in prossimità del porto e, con quel poco che rimaneva della mia sfarzosa cucina, offrivo pasti a buon mercato.

Andare per mare indurisce la pelle, ma non il cuore. I pescatori che conoscevano la mia storia, invece che alle solite locande, cominciarono a venire da me. Cucinavo quello che avanzava dalle loro reti condito con frutta, ortaggi e spezie di stagione che raccoglievo io stessa. Stufati di frutti di mare con pepe e pachino, branzini all’acqua pazza profumati al timo, “cozzetielli” di pane privati della mollica e riempiti di zuppa di pesce, polipetti affogati con pesto di pomodori secchi e basilico: il profumo del mio #streetfood si spargeva per i vicoli del centro storico, accompagnato dalle #recensioni che i marinai si passavano l’un l’altro della mia cucina.

Da un momento all’altro mi ritrovai a dover gestire una fila di persone affamate disposte ad aspettare in piedi per provare le mie ricette. Un giorno, finalmente, tra loro, arrivò anche chi avrebbe potuto intercedere per me nella liberazione di mio marito.

II PARTE

Quella volta avevo preparato pasta e fagioli con le cozze e pane caldo profumato al rosmarino. Stavo mantecando gli #ingredienti nella pentola di coccio quando la fila davanti a me si aprì lasciando avanzare un sacerdote. Era Gio Batta del Tufo, vescovo di Acerra. Le mie ricette #gourmet avevano già attirato qualche nobile o prelato di passaggio, ma sinora nessuno del suo rango. Dopo aver finito il suo piatto, me lo tese per averne ancora.
Prima di andarsene mi chiese, quasi implorandomi, se avessi potuto cucinare per lui durante il suo soggiorno a Napoli, a Palazzo Ravaschieri, dove sarebbe rimasto ospite per alcuni giorni. Non me lo feci ripetere due volte.

Ad aspettarmi trovai una vera cucina solo per me, un aiuto cuoco e tutti gli ingredienti che sognavo di utilizzare. Sembrava la dispensa di #MasterChef, tutta per il mio #cookingshow.
Dicono che il cibo avvicini i cuori delle persone, e non c’è niente di più vero. Tra una portata e l’altra il Vescovo Del Tufo si interessò della mia vicenda, chiedendomi ogni particolare e promettendomi di intervenire personalmente per aiutarmi. Nel frattempo, se avessi voluto, avrebbe potuto affidarmi un locale attiguo alla Basilica di Santa Chiara dove avrei potuto cucinare per pellegrini e fedeli. Accettai con le lacrime per la speranza di rivedere mio marito.

Dall’America erano arrivati nuovi ingredienti, patate, peperoni, cacao, ma anche nuove carni come il tacchino. Nella mia locanda sperimentavo ricette e servivo i migliori piatti #fusion della città. Tra vermicelli, #paccheri e #ziti, la mia pasta trafilata al bronzo era conosciuta in tutto il Regno. Fu anche grazie a me che i napoletani, fino a quel momento chiamati “mangiafoglie” per l’abitudine di cibarsi di verdure, divennero famosi come “mangiamaccheroni”.

Il vescovo di Acerra fu di parola portandomi ogni volta nuove notizie. Grazie alla Chiesa della Redenzione dei Captivi, nata per riscattare i cristiani fatti schiavi dai musulmani, stabilì un contatto con mio marito, prigioniero in Turchia. Non mi sembrava vero. Iniziai ad affidargli delle lettere che, tramite la Santa Casa, sarebbero arrivate in mano sua. Gli scrivevo di quanto mi mancasse, di come la cucina mi avesse salvato dalla disperazione e dalla miseria e di quello che avrei potuto fargli assaggiare al suo ritorno con le mie nuove doti di #chef.

Provai a patteggiare un riscatto per la sua liberazione ma, anche se fossi stata ricca come prima, il prezzo da pagare sarebbe stato irraggiungibile. L’ultima speranza che mi rimase per trattare con i turchi fu quella di uno scambio equo: una testa per una testa, un amato per un altro amato. Avrei riavuto mio marito solo in cambio di un altro eminente schiavo turco.

Il Vescovo e la Chiesa della Redenzione mi aiutarono nell’impresa. Trovarono e acquistarono uno schiavo atteso nella sua Patria almeno quanto mio marito. Si chiamava Musa, figlio di una madre che non si era rassegnata a saperlo prigioniero in una terra lontana. Anche lui, come facevo io con mio marito, riceveva lettere che lo rassicuravano di una vicina liberazione.

Quando imbarcarono il ragazzo anche io andai al porto a vederlo partire, salutata dai pescatori che erano stati i miei primi clienti. In quell’attesa infinita furono loro a sfamarmi con il loro cibo povero ma saporito. Per giorni andò avanti così. Poi, una mattina, la vidi.

Una nave avanzava lenta verso il porto, sull’albero maestro sventolava la bandiera della chiesa della redenzione.
La guardavo pensando che saremmo ripartiti da quel molo, senza un soldo, ma con ostriche e vino a festeggiare il suo ritorno. Era cambiato tutto. Non era cambiato niente.

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